theros historyDreams of the City” del 23/04/2014 – Traduzione di 1-Colorful-5
Da qualche parte a Meletis

Eunea sognava.

Eunea stava camminando tra le imponenti colonne azzurre che costellavano ogni dove quella piazza, al centro della città. Dei dorati leoni in metallo, animati dalla magia dei filosofi, ne pattugliavano diligentemente il perimetro, e il bianco immacolato di quel pavimento di marmo era lo strumento sul quale i suoi piedi producevano ad ogni passo una tintinnante melodia. Si formava una soffisce schiuma ai bordi delle fontane in cristallo dalle quali l’acqua zampillava così dolcemente, creando un’atmosfera estremamente rilassata in quel luogo, adatta per le amene conversazioni.

Come stelle nel cielo, in quella vasta piazza si radunavano gruppi di filosofi e studiosi per dibattere fra loro: tesi, controtesi, spiegazioni, lezioni teoriche, poemi e arringhe politiche. Nel flebile vociare generale, I filosofi tracciavano nell’etere degli arcani simboli di energia bluastra. Rappresentavano equazioni, spiegazioni e risposte, tutti concetti che Eunea difficilmente riusciva a comprendere, seppur conscio della loro monumentale importanza. Quei simboli esoterici scritti nell’aria, quelle risposte alle più nobili domande che l’umanità di Theros si era posta, mostravano uno degli scopi più alti che la mente umana poteva conseguire: il pensiero. Le più raffinate menti si radunavano lì, una confluenza di intelletto e sapienze senza pari nella piazza principale di Meletis, quella città di Theros fondata non su pietre ma su idee e illuminata non dal sole di Theros ma dai lumi del sapere.

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Arrivò un manipolo di comuni operai in bianche uniformi, eressero le impalcature necessarie e iniziarono subito dopo il loro lavoro nel più impassibile silenzio. Una volta arrivati alla cima, iniziarono a far calare lentamente delle colonne azzurre, identiche alle altre. Nessuna fune le stava sorreggendo, apparentemente un incatesimo? provenivano dal cielo lontano, e tutta l’operazione era diligentemente seguita dagli operai lì sotto. Vi fu un attimo di silenzio, una pausa in quel lavoro così enigmatico da aver suscitato la completa meraviglia di Eunea, e quella di tutti gli altri abitanti. Passarono altri sfuggenti attimi, ed improvvisamente le nuove colonne collassarono a terra in un improvviso fragore, sopra le vecchie. Nella piazza il chaos dilagò come le onde del mare; i leoni cessarono il pattugliamento, le fontane smisero si zampillare, le genti acquietarono ogni voce. Attimi di silenzio. Ognuna delle colonne originali iniziò un travagliato affondo nel suolo, il pavimento di marmo così bianco da sembrare un cielo limpido si fratturò in una complessa rete di spaccature. Vi fu un secondo collasso e le colonne affondarono altri metri ancora. I leoni reinnalzarono la guardia, l’acqua ricominciò a scorrere, le menti ripresero a ragionare e le bocche a parlare.

Nonostante quell’insolita calma ritrovata, le nuove colonne che discesero dagli astri soppiantarono con prepotenza le vecchie, lasciandole affogare del tutto nel suolo instabile. Solo una, sfuggita a quello strano fenomeno, rimase intoccata. Ma era annerita, offuscata, circondata da fessure scure nel marmo, un decadente spettacolo. Altre scosse, di nuovo. Altre colonne caddero dal cielo, soppiantarono le sottostanti, e queste ultime affondarono con la stessa sorte delle originali. Ennesima ondata, ennesimo fragore, tutto ciò divenne un ciclo apparentemente infinito, sempre più frequente, sempre più distruttivo, finché non vi furono altro che basi su capitelli e capitelli su basi, come degli strati, mentre i pilastri si frantumavano in quel susseguirsi rapido di pilastri su pilastri. Il tutto era ancora seguito e diretto dagli operai su quelle impalcature.

Le crepe si stavano man mano diffondendo, nel frattempo. Dei viticci neri di polvere e sporcizia avviluppavano ogni superficie in marmo, fino a quel momento incontaminate. Ai simboli tracciati nell’etere e alle parole si sostituirono mani furiose agitate in aria e urla di terrore. Ora le loro equazioni magiche erano sporche e ricoperte di una triste patina di polvere. Quello sporco le rendeva banali, quello sporco trasformava pura filosofia in triviali banalità. Il mormorio naturale dell’acqua nelle fontane farfugliò disapprovazione ed infine cessò del tutto, indignato, mentre una macchia oleosa prendeva il suo posto, sgorgando fuori dalle bocche delle fontane alla pulsazione di un cuore malato. Uno di quei leoni d’oro incantati rimase impantanato nella fanghiglia. Cercando di divincolarsi cadde rovinosamente al suolo, frantumandosi l’arto incastrato lì. Si rialzò. Seppur quel leone fosse di metallo ed incantato con la magia di Meletis, Eunea ebbe un amaro sobbalzo nel vedere dalla sua zampa mozza zampillare un fiotto di sangue senza fine.

In tutto quel che stava accadendo, mentre altre colonne continuavano imperterrite a scendere dal cielo stroncando le sottostanti, trasformando quella piazza in una sorta di cimitero soppiantato continuamente da colpi di martello che scendevano dal cielo, il sangue non era altro che un colore. Un rosso intenso che tinteggiava le scure sfumature di quella catastrofe dai toni tetri, neri, catramosi. Il sangue di chiunque rimaneva ferito si mescolava a quell’olio nerastro, alla polvere delle macerie e allo sporco che aleggiava nell’aria. Meletis e i suoi secoli di nobile storia stavano venendo frantumati da quelle colonne che si schiantavano tra loro con fragore, al pari delle tenere carni di una docile preda fra le fauci di un affamato predatore. Nessun anfratto di quel posto rimase intatto, Meletis e la parola Rovina stridevano fra loro, L’intera città rifuggiva all’idea di diventare un luogo decaduto, inseguendo i lumi del progresso. eppure era in ciò che la città si era ormai trasformata, nel suo incubo peggiore.

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Eunea alzò a fatica il suo sguardo per vedere gli operai intenti a scendere dalle impalcature, le loro bianche uniformi erano divenute nere, le loro vesti oramai stracci, i loro volti scavati, le loro bocche secche e impietrite, che parevano quasi stessero cercando di gridare all’infinito, ma nemmeno un minimo suono usciva. Eunea fissava inerme l’avanzata di quell’oscurità caliginosa che man mano lo circondava sempre più, intenta ad avvolgerlo. Cercò di fuggire, assaporando per un attimo la salvezza, ma una lingua di nebbia oleosa gli accarezzò la caviglia, disilludendolo. Quei viticci si insinuavano nella sua pelle screpolandola al semplice tocco. Eunea urlava una canzone che sperava potesse rassicurarlo ma senza avere le parole, poiché non gli uscivano, e disperato stava tentando di grattarsi via la patina nera che si andava formando sul suo corpo, cercando poi di strapparsi le pustole che man mano affiorarono su di lui. Fece di tutto per mantenersi pulito eppure quella macchia oleosa lo ricopriva, lo soffocava, e più tentava di rimuoverla più smembrava sé stesso, fino al punto che la sostanza catramosa si calcificò del tutto, immobilizzandolo e fermando la sua corsa. I suoi occhi ebbero l’amara fortuna di essere gli ultimi a rimanere liberi mentre quella fumaggine nera anneriva ogni dove, e con essi cercò almeno di salvare il suo stesso sguardo, posandolo dovunque vi fosse una via libera. Ma guardando il cielo, vide nuovamente le colonne schiantarsi al suolo attorno a lui, in una nuvola di detriti e polvere.

La città lo reclamò. In cuor suo sapeva: I futuri abitanti di Meletis avrebbero camminato su di lui, semplice sedimento, i loro passi si sarebbero posati sulle ultime ore buie di quei condannati, l’ormai non più vivo passato di quella stessa città.

Eunea si svegliò, urlando.

Da qualche parte ad Akros

Pollio sognava.

Le strade di Akros straripavano di persone. Pollio fece caso di non averle mai viste così piene in vita sua. Dai soldati ai fornai, donne anziane, i combattenti che passavano con aria orgogliosa, semplici contadini, monelli, schiavi, sacerdoti e i suoi figli.. quella mattina tutti gli abitanti si erano riversati nelle strade, per il mercato cittadino. Sobbalzò. I suoi figli, dov’erano finiti i suoi figli? Davanti a lui, la folla, fin troppo folta, li teneva ammassati.

Pollio afferrò dei lunghi fili, fili di spago blu, ne legò un’estremità al suo posto e le restanti a quelli di ognuno di loro, infine ne trasse un profondo respiro di sollievo. Quel filo blu, così effimero, garantiva un’immane sicurezza al vecchio Pollio. I suoi figli sarebbero rimasti al sicuro, poiché se li sentiva quasi vicini. Prese dell’altro spago, verde questa volta, e lo legò allo stesso modo in cui lego il primo. Ora i suoi figli sarebbero stati ancora più al sicuro di prima. Dell’altro spago rosso, legato attorno al suo polso e a quello di sua moglie, segno del loro indissolubile matrimonio, lo teneva vicino a lei, ed anche sua moglie gli sarebbe sempre stata vicino, tramite quel filo rosso. Legando quei fili colorati a chiunque gli fosse caro, si sentiva un’indescrivibile sicurezza, come se fosse sempre vicino a loro.

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Come trovava dei clienti per la strada, e ve ne erano molti che ben valutavano le creazioni di Pollio, frutti della sua maestria con il metallo, li collegava a sé con dello spago giallo. Voleva bene anche ai suoi clienti, il vecchio Pollio. Arrivò al punto che il polso sinistro dell’uomo divenne adornato di molte decine di bracciali di ogni tonalità, ognuno simboleggiava una relazione che lui, come individuo, aveva con tutti gli altri cittadini. Il suo polso destro era ricolmo di braccialetti che invece lo collegavano ai diversi soldati a guardia di Akros. Eppoi vi il filo che lo legava al caro Tromaki, il panettiere, l’unico capace di fare quello speciale dolce alla cannella che sua moglie amava tanto. E c’era anche il filo del buon Kopaknios, che riforniva Pollio di metalli preziosi per le sue creazioni, erano esse braccialetti o spade e armature, e tante altre. Come avrebbe fatto senza di loro? un filo ai loro polsi bastò, a rassicurarlo.

Il caro Pollio fu in grado di muoversi con facilità i primi tempi, ma ora ogni nuova amicizia diventava sempre più difficile. Lo spago si allungava, diventava lungo a perdita d’occhio, ma non si sarebbe potuto allungare per sempre. Poteva capitare però che le persone andassero per la loro strada, ma i fili di Pollio, quelli no, quelli rimanevano. Ogni volta che passeggiava per Akros, creava sempre nuovi legami, a decine o forse un centinaio, con il passar dei giorni. Finendo che, dopo qualche tempo,gli spostamenti di Pollio rallentarono e la sua mobilità divenì sempre più compromessa. Il vecchio iniziò a lottare affannosamente contro tutti quei fili colorati che andavano in ogni direzione. Cercava di romperli, ma non ci riusciva, non importava con quanta forza i suoi muscoli tentassero di divincolarsi. Più lottava per uscrne, più quegli effimeri spaghi diventavano più spessi, si ingrandivano, si, come facevano? raggiunsero lo spessore di corde, sempre più tesi e rigidi, Pollio ne fu amaramente sorpreso.

Arrivò il tempo in cui anche la più piccola tensione fu impossibile, e le persone, per la strada, anche loro erano costrette a lottare per liberarsi da quei legami intralcianti! Pollio non riuscì più a scorgere i suoi figli e sua moglie, poiché quei fili si stringevano sempre più attorno alla sua testa e al suo collo. Lì perse dal suo sguardo, non poteva più muoversi neanche di un centimetro, poteva al massimo rimanere in piedi e combattere contro il peso di tutte le persone attorno a lui. Come avrebbe fatto Pollio senza i suoi figli e sua moglie? lontani da lui, il loro filo non si distingueva più, nessuna dolce sicurezza per lui, Pollio iniziò ad annegare nelle paure e nella disperazione.

Sentì la schiena di qualcuno premuta contro il suo braccio, qualcun’altro era stretto alle sue gambe, una mano altrui appoggiava sul suo collo. L’anziano Pollio si trovò per la prima volta senza la propria libertà, senza il proprio spazio, i corpi delle altre persone si stavano man mano stringendo attorno a lui, come delle tenaglie di carne. L’uomo urlò, aveva bisogno d’aria, di uno spazio, di potersi muovere, ed invece era sempre più oppresso! Pollio non riuscì ad aprir bocca. Le corde, sempre più spesse gli proibirono anche quello. L’unico suono che emerse fu la totale assenza di speranza.

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Non ci crederete nel dirvi che Pollio rimase così intrappolato per tanto tempo, fino alla morte, sua e di tutti gli altri. Ne rimase una massa informe di cadaveri fetidi, tutti agglomerati da quei numerosi fili. Quello era il destino degli abitanti di Akros.

Pollio si svegliò urlando.

Da qualche parte a Meletis

Melanta sognava.

Si sedette al capo del tavolo ove si era soliti consumare la cena, In uno dei templi cittadini dedicati ad Efara. Questo non è il mio posto. Le sue vesti erano bianche, Intorno a lei vi erano delle torce che illuminavano con la loro fiamma tremolante le belle pareti completamente piastrellate, bianche e blu, in onore della loro Dea. Si udì l’eco dei passi provenire dal fondo del corridoio, ma, seppur in quel buio, ne seppe subito riconoscere la fonte. Quei passi si avvicinarono sempre più fino a far comparire una faccia, un viso a lei familiare che non vedeva da vent’anni. ”Melanta! posso unirmi al tuo banchetto?”

Senocrate fu uno dei suoi primi mentori al tempio di Efara, quando Melanta arrivo lì decenni prima. Dall’esterno il sacerdozio di Efara veniva visto come un ordine accogliente, benevolente nei confronti di tutti. Ma all’interno, la verità era ben più oscura. Melanta dovette lottare per trovare il suo posto, Desiderava poter servire la sua Dea, ma anche essere accolta tra i suoi coetanei. Per questo, Senocrate la difese, gli fornì una spalla su cui piangere ne suoi momenti più infelici. Ne versò molte di lacrime in quei primi anni. Ella guardò il suo viso, così pulito e senza barba, quel volto che non ebbe modo di vedere per così tanto tempo, e non si sorprese nel ritrovarsi nuovamente a piangere. Ma che importava? lei e il suo amico erano di nuovo insieme.

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Senocrate, intanto, capì le emozioni che la stavano attraversando in quegli attimi e passò qualche momento in silenzio. ”Melanta, non rattristarti. Mangiamo e beviamo. sono leggermente affamato.” Le pietanze imbandirono improvvisamente il tavolo, apparirono dal nulla di fronte a loro e Senocrate non esitò nel buttarsi a capofitto sul suo piatto. Non bere! Melanta non se la sentiva di mangiare, e approfittò di quei momenti per studiare il suo amico. Il viso di Senocrate sembrava sano, ma il resto del suo corpo era decisamente scarno, lontano dall’uomo allegro e robusto che aveva conosciuto anni prima. Senocrate prese il suo calice, e Melanta avrebbe voluto aprir bocca, gridare per avvertirlo, ma rimase invece in silenzio non appena lui iniziò a bere.

“Melanta, non ti ho ancora parlato della mia nuova teoria sugli Déi, vero?” Senocrate la guardò e sorrise, ed ella notò una macchia bluastra sulle sue labbra e denti. Il maledetto vino, pensò Melanta. Probabilimente..

“Sai, Senocrate, non credo dovremmo parlare a proposito di certe cose, Non è.. corretto. Dimmi di te invece, come stai?”

Senocrate mandò giù un altro profondo sorso di vino e Malanta fece una smorfia. Tossì prima di risponderle: ‘E’ piacevole da assaporare, davvero piacevole. Sentire il cibo scricchiolare, trasformarsi, perdere la sua interezza. Masticarlo e sentire il sapore del caos, della morte e della vita. Si, è davvero delizioso. Ma io stavo parlando degli Dèi, Melanta. Cosa sono, cosa sono realmente.”

”Non ci è permesso parlarne, è proibito.”

Senocrate tossì ancora, questa volta ancor più a fatica, prima di parlare di nuovo: ”Proibito? mi è giunta notizia della tua carica a somma consigliera, ora. Sono orgoglioso di te, Melanta, fiero di sentire quanta strada hai percorso. Quindi, tu puoi determinare cosa è proibito, vero? Cos’è accettabile? Abbiamo speso ore ed ore a dibattere sulla vera natura degli Déi. Cosa vuoi che sia, un’ora in più, amica mia?”

Un’altro violento colpo di tosse e Senocrate dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani. Un piccolo grumo di sangue uscì dalla sua bocca.

”Cosa farai, Malanta? Mi ucciderai?”

Melanta perse tutta la sua rabbia, e con essa, la sua capacità di stare in piedi. Si accasciò quasi cosciente, aggrappandosi al tavolo ‘Io non.. io non ti ho ucciso, Senocrate.” Li ho visti metterlo nel calice. Ti avrei potuto avvertire, te lo avrei potuto dire.

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Del sangue iniziò a colare dai suoi occhi ”Forse non l’hai fatto, Melanta.”

Hai detto delle cose così orribili, così tante menzogne. Cos’altro avrebbero potuto fare? Cos’altro avrei potuto fare Io?

”Lo sapevi, Melanta, che ci sono diversi stati di deperimento, prima della morte stessa?

Così tanti modi per mandare ogni cosa in rovina, diversi modi per diventare noi stessi esseri decadenti. Tante sciagure e esperienze che possono indebolirti, prima di dissolverci del tutto. Eventualmente, divieni così compromesso da non ricordare più nemmeno cosa significhi l’innocenza. Tante vie per discendere nella rovina, e tu ne hai conosciuta soltanto una. Hai ancora tante prove da affrontare prima di morire.” Senocrate spalancò gli occhi in uno sguardo orripilante lasciando sgorgare fiumi di sangue. Dagli occhi, dalle narici, dalla bocca con i denti come dighe, il viso di Senocrate si dissolse in una pozza sanguinolenta.

Melanta si svegliò, urlando.

Da qualche parte in Nyx

La città sogna.

La città ha goduto di un quieto riposo. I suoi lunghi viali di un bianco marmoreo erano puliti e lucidi, tutto lì era costruito con un tipo di marmo particolare, molto resistente, capace di riflettere i raggi tiepidi del sole come uno specchio. C’erano così tanti maestosi edifici, imponenti colonne e pavimentazioni di sampietrini perfettamente incastrati. Per lungo tempo l’intera città non ne sapeva nulla, si limitava a riposare sotto il sole, in un felice torpore generale. Infine, una piccola creatura pelosa entrò nella città. Si aggirava su due gambe, era davvero piccola, e gli abitanti lo reputavano un simpatico animaletto da compagnia. Sembrava divertirsi giocando fra loro, in quella cittadina, e così tutti furono lieti di averlo lì con loro. Ben presto arrivò un secondo animale, piccolo e peloso, e mentre i due esserini si aggiravano esplorando la città, le genti costruirono per loro piccoli parchi e laghetti ove farli giocherellare, piccoli edifici dove avrebbero potuto dimorare e piantarono appositamente degli alberi qua e là per dar loro frutti con cui nutrirsi. La città fu ancor più felice di quanto non fosse prima al solo tepore del sole.

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Il giorno successivo la città si svegliò trovando tanti di quegli omuncoli irsuti affollare le strade e gli edifici in ogni dove. Ce n’erano a centinaia e le persone vollero assicurarsi che tutti loro sarebbero stati nutriti e protetti a dovere. Fino a quel momento l’intera città non era mai stata così tanto laboriosa e dinamica, erano tutti occupati ad accudire quegli esseri. Le strade non furono più limpide come prima. E quella notte, tutti sognarono di dover darsi ancora di più da fare per rendere felici quelle creature.

Il giorno dopo, invece, la città si risvegliò con uno sgradevole brusio incessante: quelle creature erano ovunque. A migliaia, e camminavano, strisciavano e si arrampicavano ovunque, entravano ed uscivano dagli edifici, non vi era posto dove quegli esseri non vi stessero proliferando. Lasciavano dappertutto peli, sporcizia e fango,macchiando intasando qualsiasi cosa che una volta sarebbe stata immacolata. La piaga continuò a dilagare e con le loro bocche simili a quelle di scimmie strapparono le radici alla maggior parte degli alberi, facendoli cadere. Bevettero tutta l’acqua, prosciugando ogni ruscello, pozzo e svuotando ogni anfora. La loro fame era decisamente insaziabile, arrivando perfino a mordere in ogni modo la pietra di cui erano fatte le costruzioni e le strade. Ogni via, ogni posto era infestato da quelle pesti pelose, intente a nutrirsi della città stessa, ed essa crollò sotto quell’imponente pestilenza.

SORGI.

la città non riconobbe la voce e nemmeno capì da dove provenne.

RISVEGLIATI.

La città si rese conto di non aver mai sentito quella voce prima d’ora. Ma la verità in quelle parole era evidente. La città doveva risvegliarsi. C’era un altro mondo a cui aggrapparsi. La Cacofonia, il Dio di quella città nacque. Vide attorno a sé quelle creature simili a scimmie che avevano invaso la città, aggrapparsi al suo corpo. Vedeva la loro fame e la loro paura, ed era felice. La Cacofonia generò in pochi attimi una mano con la quale afferrò migliaia di quelle scimmie pelose e le frantumò, con una semplice ma spiccata stretta, gettandone poi i cadaveri a terra. Decise di non ucciderle tutte, solo alcune, abbastanza perché le altre sopravvissute potessero vivere nell’agonia e nella morsa della paura, e allora sarebbe.

”Che mostruosità è questa?” echeggiò un’altra voce dal nulla. Il nuovo Dio appena sorto udendola, riconobbe che, a differenza dalla prima, questa gli era familiare, anche se non poteva ricordare dove l’avesse sentita in passato. Un’alta ed imponente donna apparve nella volta sovrastante la città, dalla pelle di pietra e le vesti intessute nel cielo stellato di Nyx, sotto le quali chiunque con una vista acuta avrebbe notato una luce pulsante bianca ed azzurra, probabilmente mana puro. Gli occhi della donna, due agglomerati di stelle, cambiarono in una tonalità rossastra quando guardo alla Cacofonia. ”Come osi esistere? e chi ha osato generarti? dove sei, mortale? ti troverò. Nessuna speranza è vasta abbastanza per nasconderti da chi Io sono.”

Parlando, la Dea estese la sua mano, immergendola nella Cacofonia. ”Io sono Efara, e tu non dovresti esistere tanto quanto un dito oramai separato dalla mano. Addio, piccolina.” La voce di Efara alla fine parve a tratti magnanima.

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La Cacofonia non capì cosa stesse succedendo, non comprese perché la sua vita stesse svanendo e la sua consapevolezza assopendosi. Per mano della Dea, Il Dio primordiale con il nome di Cacofonia, di quella città nel sogno, Iretis, cadde nella non-esistenza.

Cacofonia, il dio delle oscure città, non si svegliò più.

Da qualche parte a Theros

La terra smise di tuonare non appena l’ultimo residuo della presenza incantata di Fenax svanì attorno ad Ashiok. Ashiok levitava a mezz’aria, silenzioso ed immobile, fino a che non si fosse accertato di essere solo, senza nessun Dio nelle circostanze. Ashiok aveva ponderato attentamente scegliendo un tempio di Efara abbandonato in una città deserta, lontana dagli insediamenti della civiltà umana nel mondo di Theros. Tante altre città deserte come quella si potevano trovare in giro per il mondo, e tutte erano come testamenti concreti di quanto fosse inutile permanere in un mondo plasmato unicamente dai capricci degli Déi.

Uno di quei capricci però, permise ad Ashiok di non essere rintracciato da nessun Dio di Theros tranne uno.

”Allora, che ricompensa devo concederti?” Chiese il Dio dell’inganno Fenax ad Ashiok non molto tempo prima, per ripagare il suo debito nei confronti del viandante dimensionale. Ad Ashiok non fece che piacere svolgere quel favore, tanto da far risultare la sua ricompensa come superflua. Gli Déi non soffrono ad essere in debito con i mortali per lungo tempo, così il viandante ne approfittò:

Voglio potermi nascondere dagli Déi.

(Questa frase fa riferimento a quel che accadde tempo addietro fra Ashiok, Fenax e Iretis. Iretis era un piccolo regno non molto lontano da Meletis. Come i loro cugini, i suoi abitanti erano anch’essi in guerra con i leonid, tuttavia il re di Iretis, Kedarick, decise di provare ad offrire loro un accordo di pace, e con sorpresa di molti, i leonid lo accettarono.

Fenax chiese al planeswalker Ashiok di intervenire per far cadere in rovina quel possibile patto di pace. In cambio gli avrebbe concesso un suo favore divino. Il giorno della firma del trattato, nonostante tutto stesse andando per il meglio, una creatura maligna uscita da un incubo ed altri orrori assieme a lei apparvero ed attaccarono tutti i presenti. Vennero però massacrati solo i leonid. Ashiok compì il dovere richiesto da Fenax, cui obiettivo era far cadere Iretis per sfruttarla come terza colonia per i Risvegliati. E difatti ci riuscì: il re Kedarick e i sopravvissuti furono accusati di tradimento.

Kedarick scrisse diverse lettere a Meletis, Akros e Setessa, ma nessuna delle tre Polis credette alle sue parole considerandole solo come le scuse di un folle tiranno. Iretis venne presto assediata dai leonid e dopo la morte del suo re cadde in rovina. NdR)

Ashiok confessò che, in un mondo dalle tante possibilità come Theros, c’erano molte cose che desiderava fare, e Fenax, dal canto suo, sapeva di aver trovato un buon servitore, e che quest’ultimo avesse chiesto la capacità di ingannare gli altri Déi lo lasciò divertito.

La benedizione sarebbe stata temporanea, e Fenax fu esplicito a proposito della fine che avrebbe fatto il mortale nel caso avesse usato la sua benedizione per tentare di ferire o uccidere un Dio. Ma Fenax non fece alcun cenno, invece, a proposito di creare un Nuovo Dio.

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I tentativi di Ashiok fino a quel momento non avevano avuto successo. Efara seppe distruggere facilmente la Cacofonia, il suo esperimento, poiché Ashiok sapeva tessere incubi e dai sogni trarne entità incorporee e creature corporee.

Lentamente, l’influenza di Ashiok su Theros crebbe e gli incubi si mescolarono nelle menti degli abitanti del piano. La tensione aumentò nelle città mentre i sogni si rivoltavano contro gli abitanti, ma era solo l’inizio del piano di Ashiok. Mentre la volontà del popolo si indeboliva, gli uomini più capaci, i detentori della magia, si ritrovarono risvegliati in luoghi senza alcun ricordo di come fossero arrivati lì o di quello che avevano fatto durante il sonno; ricordavano solo gli incubi che li perseguitavano e il caos lasciato dalla loro scia. Per tutto quel tempo, Ashiok accumulò potere per prepararsi al lancio di un grande incantesimo. Xenagos dimostrò che ascendere da mortale a divinità sarebbe stato difficile, ma non impossibile.

Ma trasformare un’idea in un Dio sarebbe stato ancora più semplice. E per qualcuno capace di controllare i sogni, ancora di più. Ashiok sospettò una teoria a proposito del Pantheon di Theros: Tutte le idee, in quel piano, prendevano forma in divinità primordiali in Nyx. Fin dall’alba dei tempi era stato così, e continuava ad esserlo. Ma, probabilmente, tutte quelle idee e sogni confluivano alle divinità attualmente esistenti, senza che nessuno, loro comprese, fossero a conoscenza di questo processo.

Ma se tale processo venisse ricorretto, scolpito alla perfezione, come una statua? Se la connessione attuale fra umani e i loro Dèi venisse attaccata e di conseguenza deviata verso un’altra strada, già preparata.. Allora si.. La Cacofonia potrebbe risorgere ancora. L’artista di tutto questo avrebbe dovuto trovare un modo per nascondersi dai sospetti divini, e nel mentre dare abbastanza tempo al suo Dio generato di crescere e sopravvivere. Ma quelli sarebbero stati dettagli tecnici, rimandati al futuro dell’opera.

Per quanto riguardava le conseguenze di quel giorno, ad Ashiok importava poco che Efara fosse venuta a conoscenza di quel che stava cospirando, e anche se avesse tentato di informare gli altri Déi, sapeva bene che i mortali non erano gli unici a vedere tracce laddove non vi erano.

Ashiok si era già spostato a contemplare l’ennesima sinfonia. Ci sarebbero state tante altre cose da tentare nel fertile piano di Theros.

Dei minuscoli frammenti delle guancie di Ashiok si dissolsero in fumo, dei nuovi sogni erano nati.

3 Comments

  1. Exodus

    Ashiok FTW. Gran bel racconto che tira le fila di tutto quanto accaduto su Theros. Sembra proprio che qualcuno abbia preso lezioni di mmmalvagità da Bolas…

  2. kingfede

    [quote name=”Cristian”]Salve, ma questa è la storia dell’ultimo blocco ? si collega con quella posta in questo link http://www.metagame.it/forum/viewforum.php?f=143&sid=ed33fe64a186f81dd76b7975532c0a38
    oppure no altrimenti potreste gentilmente linkare la parte precedente dall’inizio che vorrei leggerla ? grazie tante :lol:[/quote]
    Quella che puoi leggere qui non è che una delle storie settimanali che vengono pubblicate (al mercoledì) sul sito Wizards nella rubrica Uncharted Realms. A mio avviso questa non è nemmeno la più bella, ma di sicuro è una di quelle che offrono più materiale di discussione, e la traduzione mi sembra eccellente, il che ce la fa gustare ancor di più.

    Se vuoi un consiglio, spulcia sul sito l’archivio della rubrica che ti ho segnalato. Parlando dei più recenti, tra i racconti più belli segnalo “Cowardice of the Hero” e “The oracle of Ephara”, ma merita una letta anche “Ajani, Mentor of Heroes”…

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